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Un buon-giorno

Hey, no, non sono stata risucchiata da nessun buco nero.

Ho preso tempo, ho perso tempo.

Giornate d’ansia pre-esame, serate umide di birra illuminate da fiamme di accendini stranamente funzionanti.

Ho dormito sotto coperte alte, scoperto posti che non conoscevo, fuori e dentro di me.

Ho iniziato a scrivere in un periodo particolare della mia vita; ho iniziato a scrivere con i polsi tremanti, scrivevo per paura, scrivevo per rabbia, scrivevo perché le parole mangiavano l’anima e dovevo liberalmente al più presto. Scrivevo per ciò che non riuscivo a dire.

Ad oggi, la paura tace.

Compagna di giornate interminabili, voce pressante nelle orecchie, peso sulle spalle.

Ad oggi, non ti sento, non ti trovo.

Probabilmente perché ho smesso di cercarti tra le crepe dei muri che io stessa ho innalzato. Probabilmente perché non sei più protagonista dei miei sogni, che poi erano incubi dorati, che poi erano mostri travestiti da sogni di gloria. Sogni di perfezioni irraggiungibili.

Ad oggi, sono un po’ più contenta della mia imperfezione.

Non mi ci sento più scomoda, non è più il sassolino nella scarpa, il boccone amaro, la nota stridula che rovina la melodia, la nuvola grigia che oscura il cielo quando alla mattina esco di casa.

Ad oggi sguazzo in ciò che non posso né voglio comprendere, in ciò che non posso raggiungere, sfiorare, cogliere.

Ad oggi l’oscurità in cui prima barcollavo culla le paure del passato, rendendole certezze del presente. Rendendole il coraggio delle piccole vittorie, la sfacciataggine giusta per l’età che ho, la voglia di fare, cambiare, rivoluzionare.

Ad oggi è un buon giorno.

Ad oggi “buongiorno.”

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Caffè amaro

Quel giorno per restarti seduta accanto cinque minuti in più ho saltato la mia fermata. Io che su quel regionale non c’ero neanche mai salita.

Ricordo il tuo ginocchio, saltellava nervoso sotto la mia presa. E ricordo che non mi guardasti neanche in faccia, forse per paura. Paura di me, pensavo. Col senno di poi avrei capito che l’unico di cui avevi realmente paura era il ragazzo che scese con te dal treno, che venne con te a casa, e con cui convivrai tutti i giorni della tua esistenza.

Già.

È stato facile lasciare me. Lasciarmi incasinata, frastornata, divorata dai miei demoni.

Abbandonarmi come un pacchetto di fazzoletti vuoto, un biglietto dell’autobus timbrato.

Ti sei alzato e a passo svelto sei uscito da quel vagone, ed insieme alla giacca di sempre ti sei infilato addosso anche l’illusione di poter scaricare così il male che ti affliggeva.

Mi ti immagino, sai?

Avrai anche tirato un sospiro di sollievo, avanzando passo dopo passo verso la macchina rossa di tua madre. Pensavi fosse finita. Avevi vinto. Stavi salvando la tua vita, niente più dolore. Ed è esilarante come questa convinzione tu l’abbia tenuta stretta nella tasca dei jeans per mesi.

Poi sei cresciuto. Forse ti sei alzato di qualche centimetro. E così quei pantaloni grigi che mi piacevano tanto hanno cominciato a starti stretti. Li hai dovuti buttare. Indossarne un paio nuovo. Taglia da adulto.

E penso a te, in quei primi giorni in cui ti sarai reso conto del peso di ogni scalino, della fatica di sfilarsi quei pantaloni nelle sere di pioggia, quando bagnati si appiccicano alla pelle e non vogliono lasciarti andare.

Penso a te rannicchiato nel letto, con lo sguardo che ruzzola tra ricordi da evitare, stipati sul fondo di un cassetto che non apri mai, insieme ai miei regali.

Penso a quel maglione rosso. Che quando lo mettevi ti stava un po’ largo, ma aderiva al mio cuore quando ci sorridevi dentro.

Penso a quanti pugni avrai dovuto tirare al tuo mondo, al tuo modo di vedere le cose. Quante botte avrai preso dalla realtà, quando cruda ti si è palesata. Forse mentre eri seduto tra amici, forse tra una passaggio di pallone e un esame all’università. Forse tra uno sbadiglio in metro e un tasto nero della tastiera.

Che quando sento un pianoforte suonare i miei occhi non vedono altro che l’azzurro della tua stanza; lo stesso del cielo quel giorno a Napoli.

Te lo ricordi il cielo di Napoli? Ti ricordi che mesi dopo poi, lo siamo andati a cercare a Firenze? E no, non lo abbiamo trovato.

Grigio; tutt’intorno, tu.

Mi abbracciavi e poi sparivi tra lenzuola ruvide. E ci siamo graffiati la pelle. Ci siamo graffiati le vite.

E abbiamo capito tutto e non abbiamo capito niente. E ci siamo stretti forte per poi spingerci lontanissimo.

Ci siamo dati la rincorsa per poi gettarci ai lati opposti del vuoto.

Ci siamo detti tanto per poi non dirci più nulla.

Come quel giorno, quell’ultimo viaggio in treno.

Poteva essere un cenno della mano, un’alzata di spalle, uno sguardo.

Potevi salutarmi in tanti modi mentre mi scortavi alla porta d’uscita della tua vita.

Potevi.

Ma tu, semplicemente, hai scelto di non farlo.

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Cara me,

Volevo chiederti scusa.

Per tutte le gabbie dentro alle quali ti ho rinchiusa, per tutte le notti in cui ti ho tormentato di pensieri, per tutto l’amore che avrei dovuto darti e che invece ti sei ritrovata ad elemosinare da chi a malapena conosceva il suono della tua voce.

Per le canzoni che non ti ho permesso di cantare, le parole che non ti ho concesso di pronunciare.

Per la rabbia, il rancore, il rammarico in cui ti ho fatto vacillare. Lasciandotici barcollare. Lasciando che il buio ti avvolgesse come gli abbracci da cui ti ho fatto scappare.

Per la serenità di cui non sono riuscita a farti godere, per i momenti vissuti a metà.

Per non aver mai creduto che saresti riuscita a concludere più del nulla, per non averti mai ritenuta all’altezza.

Oggi ti libero; spalanco le finestre della vita e lascio che il calore t’inondi di tutto ciò che può esserci di bello.

Ti libero perché meriti le lunghe corse a piedi scalzi verso il mare e le infinite risate che poi quasi ti fa male la pancia.

Ti libero perché non è colpa tua, non lo è mai stata.

Ti libero perché sono l’unica a poterlo fare.

Ti libero perché oggi ti voglio il bene che non ti ho mai voluto.

Ti libero perché ti ho incontrata stanotte, tra i miei sogni stropicciati; avevi gli occhi stanchi e non sapevi più di casa.

Mi ha fatto paura, vederti così. Ho avuto difficoltà anche nel farlo, per quanto piccola eri. Ti ho presa tra le braccia e ho pianto le tue lacrime, mentre con le dita solleticavo le corde delle tue paure. Ne facevo una ninnananna.

Ti libero perché oggi ti amo.

Ti libero perché oggi non sei più sola.

Ti libero perché oggi siamo.

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Giovedì

Stavo pensando alle aspettative.

A quelle che un genitore ripone in un figlio, o viceversa.

Ma anche a quelle che sonnecchiano affianco alla nostra coscienza ogni volta che ci affidiamo a qualcuno, ogni volta che poniamo una domanda, ogni volta che in maniera implicita e latente chiediamo aiuto.

A quelle che dall’esterno ci spingono ad essere migliori, a volte, mentre altre gravano sulle nostre spalle fino a mettere in ginocchio ogni voglia di metterci in gioco. Il gioco della vita.

A quelle che insonsapevolemente abbiamo nei confronti di un futuro, nei confronti della realtà circostante, nei confronti di noi stessi.

Quelle che “vorrei diventare”, “vorrei cambiare”, “un giorno vorrei essere”.

L’aspettativa è quel qualcosa che cammina inesorabilmente su di un filo sottile.

La immagino un po’ come un funambolo; finché segue il suo cammino nell’equilibrio tra ciò che vorrei e ciò che mi è possibile ottenere, tutto procede.

Ma basta un attimo. Una frazione di secondo. “Un passo più lungo della gamba” (è proprio il caso di dirlo), e giù. Si cade. Ci si spezza le ossa.

Basta quel pensiero di troppo, quello scalino scivoloso su cui abbiamo deciso di saltare a piè pari. Basta così poco per perdere la cognizione di chi siamo e ritrovarci a franare da palazzi alti tanti piani quanto sforzo abbiamo impiegato nel salire e salire e salire, nel realizzarci.

E così ci ritroviamo a faccia in su, ad osservare la bellezza di ciò che abbiamo costruito, senza poterne più giovare.

E ci manca così tanto, quell’equilibrio perso.

Perso per quel piccolo passo di troppo, fatto per non deludere.

Per non deluderci.

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Venerdì

Avete presente quei giorni di stanchezza?

Quelli che gli occhi pesano, di parole ne rimangono poche e ogni sorriso che incurviamo è al gusto d’incoerenza?

Quei giorni in cui nulla coincide, tutto stroppia.

Quando non riconosciamo per nostri neanche i passi che muoviamo, e guardandoci passare nel riflesso di qualche vetrina quasi abbiamo il dubbio di starci muovendo davvero.

Quando gli altri sono echi lontani su cui non riusciamo a focalizzarci neanche per la durata di una conversazione. E così finiamo ad annuire con occhi vacui, che rotolano alla ricerca di un appiglio.

I nostri sguardi diventano dita avide, che necessitano emozioni nuove da grattare via dalle pareti di anime circostanti.

E ci ritroviamo nel frullatore della continua ricerca di cose che forse neanche esistono, ma che desideriamo ardentemente.

Desiderio profondo, animato dal vuoto.

Desiderio di colmare, di amare, di mare.

Quei giorni in cui abbiamo fame di vita ma al contempo ne siamo nauseati. Quei giorni infiniti. Tra la voglia e l’apatia. Tra il troppo e il nulla.

Quei giorni.

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Martedì, EBBASTA SBRANARCI!

Gironzolando sul web non ho potuto evitare di buttare l’occhio sulla quantità di botta e risposta riguardo all’accaduto.

Mi riferisco alla tragedia consumatasi al concerto del cantante trap Sfera Ebbasta, lo scorso venerdì sera.

Mi ritengo sinceramente dispiaciuta per le vittime della strage, e avendo un fratellino coetaneo dei ragazzi coinvolti percepisco con vicinanza emotiva la sofferenza delle famiglie.

Detto ciò, a sconfortarmi ulteriormente, sono stati i continui battibecchi che stanno alimentandosi sul web dalla fatidica sera.

È iniziata, forse involontariamente, una battaglia giovani vs generazioni del passato a cui non trovo senso alcuno.

Ci si colpevolizza vicendevolmente, come se la colpa di tanto orrore dovesse necessariamente essere affibbiata a qualcuno.

Non lo trovo giusto soprattutto dal punto di vista umano della faccenda, il quale spesso frastornati dall’uso (o meglio abuso) che i media fanno dell’oggetto di dolore tendiamo a lasciare un passo indietro.

Ho scelto appositamente la parola oggetto per sottolineare ulteriormente la facilità con la quale la fine di giovani vite umane diventi argomento di commenti su Facebook, di dispute sul “chi ha fatto peggio”.

Moralisti di tutte le età cercano di trovare spiegazione a fatti come questo sputando giudizi universali.

Sentenze sancite dal ticchettio di tastiera, dietro alla quale immagino seduto il tipico italiano medio, contornato dalle sue false certezze, mentre sorseggia una tisana al gusto d’ipocrisia.

Dal dolore non dovrebbe nascere asperità, dalla sofferenza non dovrebbe innalzarsi un grido di guerra.

Eppure viviamo in una società in cui la notizia crea fazioni, non pensieri.

In cui chi pensa di essersi fatto un’idea ha la prepotente arroganza di ritenersi portatore della giusta parola.

In cui idee contrastanti non generano dialogo, ma lo abbattono.

In cui ci si chiude nella propria bolla d’ignoranza perché non si ha neanche l’umiltà di chiedersi cosa esista al di fuori.

È comodo, molto comodo puntare il dito verso l’immagine di un volto tatuato, verso una generazione di ragazzini che bruciano le tappe come fossero sigarette (o altro), o d’altra parte verso genitori che non sono stati capaci di trasmettere valori (come il semplice, a dirsi ma non a farsi, rispetto per l’altro).

Io non ho idea del motivo per il quale tanta brutalità ci colpisca alle spalle, a volte. Né tanto meno del perché stavolta abbia scelto di farlo nelle vesti di spray urticante.

Ma so che non sarà sparandoci addosso che ovvieremo alle problematiche della nostra attualità.

Quindi, consiglierei ai nostri amanti delle lotte clandestine sul web, di riposare indici e giudizi in tasca, o dove meglio credono.

Saper stare al proprio posto, quando occorre, fa bene all’anima.

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Lunedì

Stamattina ero in fila alle poste.

Vi sono rimasta incastrata per un lasso di tempo che un individuo mediamente paziente definirebbe interminabile.

Questo però, volendone cogliere l’aspetto positivo, mi ha dato modo di riflettere.

E guardandomi intorno (rimanendo però con un occhio incollato al tabellone, che non sia mai perdi il tuo turno), ho osservato da vicino la corsa irrefrenabile che scandisce le nostre giornate.

Corriamo, corriamo da quando posiamo i piedi giù dal letto a quando li ritiriamo sotto le coperte.

E se qualcosa ostacola la nostra corsa, come un numeretto che non appare mai, andiamo in tilt.

Che poi, vorrei sapere, ma dove dovremmo mai andare? Dov’è che corriamo? Perché ci affanniamo?

Mentre mi ponevo queste domande, con lo stomaco che iniziava a maledirmi per non aver portato con me il pranzo, scrutavo quel vastissimo ritaglio d’umanità che avevo attorno. Così vasto ed eterogeneo da poterne ricavare un qualche studio antropologico.

E quindi eccolo lì, il pensionato dal berretto stropicciato che ci fa perdere il verde al semaforo.

Poi c’è lei, la mamma appena uscita dalla palestra, quella che mentalmente sta già organizzando la cena di Natale e il pranzo di Santo Stefano.

E loro, i ragazzini paffuti dal profumo di mensa scolastica, che cercano disperatamente di capire cosa sia un bollettino.

Trascorsa la prima ora d’attesa (non sto esagerando, ma questo lo sapete già), la vera essenza d’ognuno di noi si è magicamente palesata.

Ammetto di non aver provato simpatia per tutti i miei compagni di sventura; mi è risultato anzi molto difficile riuscire ad empatizzare con l’urlatrice dello sportello 6 (lo so signora, la responsabilità è del mittente, lo abbiamo capito, stanno cercando di risolvere, si dia pace) così come con l’impiegata che poco voleva impiegarsi che mi ha “servito”.

Quando poi sono tornata alla vita, immergendomi nella brezza ormai pomeridiana, ho messo a fuoco il pensiero che nel frastuono non riuscivo ad ascoltare.

A volte forse dovremmo fermarci.

Non necessariamente in un ufficio postale, sia ben chiaro.

Ma a volte dovremmo fermarci. Smettere di correre. Ascoltare. Ascoltarci. Cogliere.

Dovremmo prendere fiato.

Che il bello sta anche nelle lunghe file, nei posti scomodi in cui sedersi.

Dovremmo tacere, di tanto in tanto, la nostra innata voracità, che silenziosa porta il gusto via con se.

Dovremmo assaporare.

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Sabato

Questa dovrebbe essere una di quelle mattine in cui t’immergi lentamente nella schiuma soffice del tuo cappuccino, mentre i pensieri della settimana si allontanano con i loro passi pesanti.

Eppure non lo è.

È un sabato malinconico.

Un sabato che mi si attorciglia un po’ lo stomaco.

Un sabato di ricordi che s’infilano nelle orecchie, anche se non vuoi, sussurrandoti parole di nostalgia.

Stamattina, il colore del caffè porta la mia mente a foglie cadute, calpestate, ranicchiate in un angolo di qualche gelida porzione di mondo.

Non torneranno mai più a godere della bellezza di primavera, penso.

Ed è questo che mi ha fregato, stamattina.

Ricordi vividi di primavere passate.

Mentre io, stamattina, sono foglia d’autunno.